film l'inhumaine

L’inhumaine

L’inhumaine di Marcel L’Herbier
Sonorizzazione dal vivo di Mike Cooper

L’Inhumaine è il film d’arte par excellence.

Le sue ambizioni sono dichiarate dalla lista degli esponenti dell’avanguardia parigina nel campo della pittura, dell’architettura e della moda messi in campo dal visionario esteta del cinema Marcel L’Herbier (1888-1979), uno dei registi più colti e innovativi del suo tempo.
Claire Lescot è una cantante senza cuore che frascheggia con i suoi molti ammiratori, tra cui un giovane e romantico inventore, Einar, che per conquistare l’amore della “disumana” simula il suicidio.
Il giovane riesce ad affascinare la diva con i suoi pionieristici esperimenti di trasmissione del suono e userà la sua perizia tecnica per salvarla dal morso di un serpente velenoso nascosto in un bouquet di fiori da un maharajah respinto.
Lo stesso L’Herbier avrebbe ammesso in seguito che la sua semplice “histoire féerique” era soltanto una cornice per le sperimentazioni visive e che aveva “utilizzato il copione senza dubbio modesto un po’ come i compositori utilizzano il basso continuo.
Su questo basso costruivo accordi, accordi plastici, ciò che è importante per me non è la successione degli avvenimenti, è ciò che è verticale, l’armonia plastica”.
Sempre impegnato a portare il cinema verso nuove direzioni, L’Herbier, scriveva e discettava instancabilmente sul potenziale artistico del medium, esponendo le sue teorie dovunque L’Inhumaine venisse presentato, riprendendo i temi di una sua conferenza tenuta presso il Collège de France nel 1922, Le Cinématographe contre l’Art.
La sontuosa produzione si rivelò un disastro finanziario per la Cinégraphic, la società di L’Herbier.
Le reazioni del pubblico furono molto contrastanti; le querelle scaturite alle prime proiezioni spesso degenerarono in risse, e L’Inhumaine riesce a sollevare accese discussioni ancora oggi.
Il titolo stesso segnala il suo problema principale: la mancanza di cuore.
È difficile lasciarsi coinvolgere emotivamente da personaggi che sono un mero corollario del loro ambiente, in particolare la stessa diva “inhumaine”.
Nondimeno, come straordinario esercizio di stile, il film mantiene il suo potere ipnotico.
L’Herbier stesso definì il suo risultato come “assenzio visivo”.
L’Inhumaine rappresenta soprattutto un prezioso documento artistico della sua epoca, una sintesi di geometrie architettoniche, cubismo e futurismo, ma anche un’anteprima del decorativismo modernista che farà la sua apparizione ufficiale nel 1925 all’Exposition des Arts Décoratifs et Industriels Modernes (che ispirò il termine “Art Déco”).
Molti degli artisti arruolati da L’Herbier parteciparono all’Exposition: l’architetto Robert Mallet-Stevens, influenzato dalla Secessione viennese, in primis dai lavori di Josef Hoffmann e della Wiener Werkstätte; il pittore Fernand Léger, all’epoca nel suo periodo delle “macchine”, che di lì a breve realizzerà il film Ballet mécanique; il creatore di moda Paul Poiret; l’architetto e designer Pierre Chareau, futuro celebre co-autore della rivoluzionaria “Maison de verre” (Casa di vetro).
Il Futurismo si affaccia nel film con il suo straordinario immaginario di marchingegni misteriosi, ruote girevoli e auto veloci, ma anche con l’anticonvenzionale guardaroba indossato dal protagonista maschile Jaque Catelain, l’attore feticcio di L’Herbier.
Il film si apre con una serie di carrellate saettanti sulle alture della valle della Senna che sovrastano Rouen.
La destinazione finale della vertiginosa corsa è la villa di Claire, una fantasia architettonica magistralmente creata con modellini in miniatura e set ricostruiti in studio, che esemplifica la famosa frase di Mallet-Stevens: “L’architettura è un’arte essenzialmente geometrica.” Alberto Cavalcanti, una delle talentuose reclute di L’Herbier, disegnò la sala da pranzo della diva, la cui tavola è situata su un isolotto a forma di scacchiera in mezzo a una piscina, dove camerieri col volto coperto da maschere sorridenti servono gli ospiti che sono intrattenuti da esibizioni di giocolieri, mangiatori di fuoco e da una jazz band appollaiata su un balcone.
Claude Autant-Lara disegnò il giardino d’inverno nello stile delle giungle del “Doganiere” Rousseau.
Poi l’azione si sposta a Parigi, all’interno del Théâtre des Champs Élysées, dove i Ballets Suédois di Jean Börlin e Rolf de Maré (che l’anno seguente saranno coinvolti anche nelle riprese di Entr’acte di René Clair) stanno eseguendo il balletto del 1920 La Nuit de Saint-Jean (purtroppo visibile solo in campo lungo).
Al balletto fa seguito un récital di canzoni della diva, che suscita una reazione indignata del pubblico riecheggiante il putiferio che si era scatenato nel 1913 nello stesso teatro durante la prima rappresentazione del balletto La sagra della primavera di Diaghilev e Stravinsky.
George Antheil, dissonante “bad boy of music”, scrive nella sua autobiografia che il pubblico che vediamo era stato in realtà infiammato da uno dei suoi recital di pianoforte; e ne cita perfino la data precisa: 4 ottobre 1923.
Ma la scena più emozionante del film è certamente la sequenza nel laboratorio di Einar, che contiene un superbo ballet-mécanique tridimensionale in un set allestito personalmente da Léger, con un montaggio dal ritmo incalzante e lampi di luce dai colori primari, nel corso della quale l’eroina è riportata in vita e scopre la sua nuova umanità – una condizione che riecheggia nel titolo americano del film, The New Enchantment (Il nuovo incanto).
A prescindere dai singoli contributi artistici, L’Herbier tiene saldamente le fila di ogni aspetto visivo del film, pianificando con estrema precisione mise en scène, movimenti di macchina, luci, montaggio, scenografie e costumi, imbibizioni, viraggi e didascalie.
Così come appaiono evidenti i suoi interessi personali per le nuove tecnologie: sia la radio che la televisione hanno un importante ruolo nel film.
Il solo aspetto che pare sfuggire al suo controllo è la sua formidabile primadonna.
Georgette Leblanc (1869-1941) era una celebre cantante lirica e un’ex compagna dello scrittore simbolista belga Maurice Maeterlinck.
Cinquantacinquenne all’epoca del film, aveva appena iniziato una relazione destinata a durare nel tempo con l’americana Margaret Anderson, fondatrice e editrice di The Little Review.
La Leblanc non possedeva più il tipo di “photogénie” teorizzato da Louis Delluc, ma serbava ancora un grande carisma personale, e fu solo grazie alle sue buone relazioni con alcuni ricchi uomini d’affari che il film poté essere realizzato; lei stessa fornì metà del denaro.
La partitura originale per L’Inhumaine di Darius Milhaud è andata perduta, ma una recente ricerca di Serge Bromberg suggerisce che si trattasse prevalentemente di un assemblaggio di arie di grandi compositori francesi, tra cui Rameau, Berlioz, Bizet, Debussy e Satie.
Milhaud contribuì personalmente con due interludi per percussioni, probabilmente per il “suicidio” in automobile di Einar e per la scena finale nel laboratorio.
Dopo la sua prima distribuzione, L’Inhumaine giacque in un limbo per decenni, come una leggenda perduta dell’avanguardia, oscurato dai successivi capolavori di L’Herbier, Feu Mathias Pascal (1925) e L’argent (1928).
Riapparve infine negli anni ’60.
Questa nuova versione restaurata dalla Lobster Films ha avuto la sua prémière al Théâtre du Châtelet di Parigi il 30 marzo 2015. (Catherine A. Surowiec, Le giornate del cinema Muto, 2015).


Mike Cooper – Nato a Reading, nel Berkshire (Inghilterra), nel 1942. Leggenda vivente della sperimentazione musicale e infaticabile ricercatore sonoro.
Nel 1965 incontra il chitarrista Derek Hall e i due stabiliscono una residenza comune presso il caffè Shades di Reading, ospitando artisti come John Renbourn, Bert Jansch, Davey Graham, Al Stewart e altri.
Cooper sviluppò sempre più il proprio approccio eclettico in seguito all’esposizione a una più ampia gamma di musica, soprattutto jazz, nei festival in cui si esibiva. Il suo secondo album, Do I Know You? includeva il basso del jazzista Harry Miller e registrazioni sul campo, ed è stato seguito dall’album Trout Steel del 1970, con una gamma più ampia di musicisti, tra cui Mike Osborne, Alan Skidmore e John Taylor, oltre a Harry Miller, Stefan Grossman e il gruppo folk-rock Heron.
L’album è considerato “una delle sue registrazioni più durature e influenti.”Negli anni ha collaborato con Dave Holland e Ian A. Anderson, girando l’Europa e il mondo con la sua musica. E’ anche artista visivo, lavora soprattutto con il collage di materiali diversi, tra cui la fotografia. Ha esposto in vari luoghi le sue opere negli ultimi anni.

Programmazione

20 Novembre 2024 - 20:30

Anno

1924

Durata

125'

Nazione

Francia